Briciole dalla mensa - 5° Domenica T.O. (anno B) - 4 febbraio 2024
LETTURE
Gb 7,1-4.6-7 Sal 146 1Cor 9,16-19.22-23 Mc 1,29-39
COMMENTO
Il Vangelo di Marco ci racconta una "giornata tipo" di Gesù. Ascoltiamo la sua e ci vengono in mente le nostre giornate: spesso piene, affollate di impegni, anche di corsa. Le nostre giornate senza tregua, e quella senza tregua di Gesù. Ho insistito su questo "parallelismo" perché mi provoca una specie di emozione, per questa immersione di Gesù nella vita reale della gente, senza pause, immerso in tutti i luoghi: la sinagoga, la casa, la strada, la porta della città, il luogo deserto, forse un monte.
In un viaggio in Terrasanta, una delle esperienze più emozionanti è stata, per me stare negli stessi luoghi, percorrere le stesse strade di Cafarnao, che gli scavi archeologici ci permettono oggi di visitare. Pareva di essere là, in quella giornata di Gesù; e pare che Gesù sia qui, nei nostri luoghi, nelle nostre strade. E poi Marco ci elenca le ore: il tramonto del sole, la sera, il mattino quando era ancora buio. Come le nostre ore: a dire ancora questa immersione nella vita concreta. È un invito, anche per noi, a non sfuggire l'immersione, come Lui non l'ha sfuggita. È segno della sua fedeltà all'uomo, all'umanità, alla storia.
Il problema, per Gesù, come per noi, sta nel trovare, in una vita così immersa, spazi di interiorità. Gesù sa ricavarsi spazi di silenzio e di spirito: «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava». Suona come un invito, per noi, presi da tante cose, a inventarci i luoghi e i momenti di silenzio, di ascolto, di preghiera. Si tratta di una condizione necessaria perché la nostra vita, immersa in tante cose, non finisca per essere prosciugata.
Il rischio è di ritrovarsi sequestrati. Anche per Gesù c’è stato il rischio: «Tutti ci cercano». La sua risposta è netta e lucida: «Andiamocene altrove». Gesù non vuole essere sequestrato: passa per le nostre strade, si ferma nelle nostre case, ma va anche «altrove». Perché non vuole essere preso dentro soltanto alle nostre esigenze, alle nostre pretese. Gesù non vuole nemmeno che i nostri ringraziamenti (aveva guarito tutti i malati) lo sottraggano dalla ricerca di altro: di se stesso nel silenzio, di altre persone nel loro bisogno.
Per certi versi possiamo dire, allora, che il mistero di Dio non sta tanto nella sua grandezza, ma nel fatto che non lo possiamo trattenere e sequestrare, soprattutto come Chiesa: Lui è sempre in ricerca di interiorità e di altri bisogni umani.
Ma l'immersione di Gesù è soprattutto dentro le sofferenze umane. Evitando, però, l'umanità plaudente: non è questo il "bagno di folla" che Lui ricerca. La sua ricerca è altrove: è passare dentro le malattie, i problemi senza fine dell'umanità. Nella sua vita pubblica, Gesù mostra subito la sua attenzione per il problema del dolore, del male, del grido di sofferenza degli innocenti (pensiamo a tutti i morti civili che continuano a Gaza).
A tutto questo non c'è risposta: non si risponde al problema del male, della fatica del vivere, dell'assurdo del dolore con le parole. Giobbe, in modo anche ecclesiasticamente molto scorretto e scandaloso, si fa portavoce per l'eternità del grido dell'uomo oppresso: «A me sono toccati mesi di illusione e notti di affanno. I miei giorni scorrono più veloci di una spola, svaniscono senza un filo di speranza». E conclude con un disperato appello a Dio: «Ricordati che un soffio è la mia vita». Il grido sofferente va sempre rispettato, anche quando è scandaloso, soprattutto se grida contro Dio. Perché è il modo nel quale il malato cerca di dirsi nella sua malattia, in ciò che segna la sua vita. E Dio è davvero "scomodato" dal dolore umano: quel grido diventa, come in Giobbe parola di Dio!
Così Gesù - incontrando i malati, in questa specie di sommario della sua giornata fatta anche di cura e di guarigione dei sofferenti - non predica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza, non dice che la sofferenza avvicini a Dio e al paradiso, non è un prezzo da pagare per avere in ricompensa il Regno. Gesù condivide il male di vivere, s'immerge in questa nostra povera umanità, esercita una infinita compassione. Compie anche delle guarigioni, per garantire che il male e la morte non sono l'ultima parola sulla nostra fragilità umana. L'attività di attenzione e cura riservata ai malati esprime la prima finalità della missione di Gesù: Egli è venuto ad «annunciare» il Regno (Mc 1,14), quel Regno che si sente chiamato ad «annunciare» (stesso verbo) anche nei «villaggi vicini», perché anche là ci sono sofferenze da toccare e guarire, per le quali Egli è venuto. Così, in una prospettiva di fede, i luoghi ove si trovano i malati diventano luoghi del Vangelo.
In ogni modo, Gesù si rifiuta di essere solo un guaritore e, in questo senso, si sottrae alle pretese della gente. I suoi gesti di guarigione rivelano sì che in Lui opera la potenza di cura divina. Ma Egli vive la sua missione non soddisfando tutte le richieste, quanto alimentando la relazione con il Padre che lo ha inviato a tale compito. Per questo Gesù si ritira a pregare e rivendica il primato dell'annuncio del Vangelo, dentro il quale – soltanto - Lui opera il bene.
Alberto Vianello
“Ricòrdati che un soffio è la mia vita”. Quante volte ci capita di far proprie queste parole. “Finiamo i nostri anni come un soffio”, gli fa eco il Sal 89.
“I miei giorni scorrono più veloci d'una spola, svaniscono senza un filo di speranza”. Il clima è lo stesso: Giobbe, ma ogni uomo, davanti alla miseria della condizione umana ne fa parola con Dio, come alcuni fra noi con un ipotetico altro da sé immaginato davanti a sé. La luna per Leopardi: le parole di dolore non sono meno intense. Credenti o no, facciamo i conti con la stessa esperienza e non è che per i primi ci sia più facile soluzione. Gli uni e gli altri sono chiamati, obbligati ad entrare dentro la questione, scommettendo sull’idea che questa pur breve cosa che chiamiamo vita ‘non può’ essere un assurdo. Se c’è soluzione, quella va bene per tutti, chi crede e chi non crede perché credere non è un partito preso, ma la comprensione di un fatto vero.
Gli evangelisti raccontano guarigioni, ne parlano in modo assertivo: queste cose sono accadute! Un uomo speciale di nome Gesù è passato per la Palestina risanando e ‘annunciando il regno di Dio’, come se si trattasse dello svelamento di una realtà dentro ed oltre ‘questa’ realtà suscitando meraviglia, entusiasmo e contrapposizione, condanna. Succede anche a noi le volte in cui siamo innamorati e le volte in cui fingiamo di esserlo, o siamo indifferenti. Teniamo presente che altri uomini di altre culture nella storia hanno fatto cose simili…
Ma per Gesù il discorso è diverso, è completo: la guarigione come superamento del limite riguarda tutto l’uomo e tutti gli uomini, qui ed oltre. Di più: ci chiama in causa chiedendoci di partecipare al processo della salvezza non solo, come la Chiesa sempre raccomanda, con una vita convertita al bene, ma con le parole e le opere. “Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé…” (Lc 10,1ss), dando loro il potere di guarire i malati, scacciare i demoni.
Tale responsabilità è richiesta agli stessi che vanno da Lui: “Credete voi che io possa fare questo?” ai due ciechi (Mt 9,28) e al centurione: “Ti sia fatto secondo la tua fede”, (Mt 8,10).
Veniamo a noi, oggi. Possiamo affermare che la fede non consiste solo in un assenso interiore, in una devozione, nel rispetto del precetto e nemmeno nella pratica peraltro doverosa delle buone norme. Non è una condizione inerziale, una soluzione a tavolino, ‘speriamo che di là ci sia qualcosa ché io così me la guadagno’. È di più: è partecipazione all’annuncio della salvezza che passa attraverso il beneficio delle guarigioni e della parola che nei fatti svela la realtà di Gesù: “Io ho vinto il mondo”, del quale siamo prigionieri tanto più che ne vogliamo una fetta più grande. Ed è la ‘fede’ che fa questo: ha il potere di far accadere le cose.
Il bene per qualcuno dipende dalla nostra volontà che accada, dalla serietà che ci mettiamo. ‘Ah, ma io che posso fare?’, tante volte il disimpegno si traveste di umiltà. Non c’è dubbio che Dio voglia il bene, ma quel bene è ‘anche’ nelle nostre mani. Se no perché pregare, oltretutto ‘incessantemente’? “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile” (Mt 17,20).
Questa prospettiva ha un particolare impatto sul credere, nel senso che carica di responsabilità la pratica religiosa, la stessa filantropia: siamo custodi del bene altrui, in senso etico nella benevolenza, e in senso provvidenziale: che riabbia un bene mancante. Non ci deve meravigliare questo, piuttosto c’è da meravigliarsi che non sia così! La rivelazione che Gesù ha portato riguarda anche questo potere. “A quella vista, la folla fu presa da timore e rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini” (Mt 9,8).
Non chiede Gesù di pregare il padrone della messe di mandare operai? E non può essere la nostra preghiera fatta con insistenza e convinzione un aiuto dato a Gesù? Perché la messe è molta e Lui ha bisogno che gli si dia una mano.
Si può anche capire meglio la necessità (il gusto) di raccogliersi in preghiera di buon mattino, a tarda notte, quando intorno tutto è silenzio, fasciati dalla solitudine.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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